IL POTERE DELLA TRAMA

di Francesca Baboni

 

Il binomio "Arte-tessuto" è stato da sempre oggetto di una fascinazione all'interno del panorama contemporaneo, e ha visto da parte di numerosi artisti, di dichiarata fama e non, la scelta negli anni di legare il tessile ad un aspetto antropologico o sociale, se non talvolta politico, come si è visto dal recupero dei materiali poveri a partire dagli anni Sessanta, all'Art textile o Fiber ART legato al femminismo degli anni Settanta fino ad arrivare alle nuove istanze degli anni Duemila, basate su di una concezione maggiormente intimista. Come scrive Marina Giordano nel suo recente saggio in cui analizza il rapporto tra manufatto e arte contemporanea: "il filo ha in sé la forza magica del racconto, l'energia di un rito mantrico, sfida la pesantezza della materia e le leggi dello spazio" . L'atto dell'annodare i fili ha il grande potere di fungere pertanto da soglia metaforica tra il nostro mondo e un possibile altrove, contribuisce a valorizzare un vissuto fatto di battaglie, tradizioni e rivendicazioni di genere riannodandolo e riportandolo alla luce. Per questo l'utilizzare la trama al posto del pennello ha avuto conseguenze talvolta dolorose poichè ha lasciato affiorare parti nascoste del sé e della propria intimità, legate ad un "fare" minuzioso e paziente, che non prescindeva da una manualità accorta e puntuale. Gli artisti in mostra raccontano le loro microstorie attraverso il tessuto che diviene così viatico per passare da una dimensione particolare ad una universale, per esorcizzare ataviche paure o richiamare alla memoria ricordi, ora protezione o rete e ragnatela che imprigiona in un ruolo predeterminato spesso legato all'ambiente domestico. A sfatare il luogo comune di un'azione del "tessere" come simbolo di femminismo e femminilità in favore di una grande forza non soltanto costruttiva ma anche decisamente ironica è Mimmo Iacopino, unica presenza maschile in mostra. Il velluto e il raso giocano con le luci e le ombre riflettendo le loro cangianze e creando effetti ottici vibranti, mentre metri da sarto uniti alla materia tessile costruiscono l'opera con una grammatica di numeri che diventa un magico alfabeto. Acrobata di un certo dadaismo rivisitato, quantomeno nel procedimento ludico all'insegna del divertimento, l'artista illude lo spettatore come fosse un mago ironico e beffardo della finzione, mostrando lo stesso oggetto per diverse angolazioni o lasciando uscire stringhe per scarpe a cascata fuori dal perimetro del quadro che si trasformano in maschere nere tribali e primitive (serie delle Metamorfosi) fautrici di una certa inquietudine. Ketty Tagliatti si rifugia in un nido protettivo per esorcizzare la solitudine e il vuoto. Ecco che allora la stoffa pesante del materasso usato e vissuto, imbottita e trapuntata, con la forma delle rose del suo giardino, un motivo che ritorna costantemente nella sua poetica, sulla quale interviene con pittura e cucitura a mano, arriva ad assumere la dimensione di un grande abbraccio che invade lo spazio vitale. In questa accezione per l'artista la materia è frutto di un lungo e faticoso lavoro di assemblaggio e di dipintura, il cui risultato ci rimanda ai letti di sofferenza dei manicomi e delle carceri e ad una volontà di ricucire il passato. I grandi teli, sui quali campeggiano petali macroscopici, sono quasi apparizioni - simbolo di una vegetazione ormai scomparsa che diviene pelle ed involucro, cartilagine palpitante, e che rivive anche nei disegni quasi geometrici e germinativi che assurgono il ruolo di piccoli teatrini della memoria commemorando l'antico predominio della natura. Una funzione più sociale ed evocativa hanno le opere di Florencia Martinez, pregne di storia seppure al di fuori di ogni contesto, in cui il tessuto tridimensionale gonfio di gommapiuma assume il ruolo quasi di cornice per l'evento che si intende raccontare. L'ispirazione fa riferimento al movimento Madì (Materialismo Dialettico), nato nel 1944 in Argentina nell'ambiente dell'arte non-figurativa, dove l'oggetto-opera non rappresenta, non esprime, non significa, non è in rapporto con un soggetto, ma è vero in sé, e descrive in termini empirici lo sviluppo storico del pensiero. Le immagini dell'artista, riprese da fotografie di vecchi archivi fotografici, raccontano difatti situazioni esistenziali forti dove l'insistere porta ad ottenere risultati, come ad esempio donne che nei decenni scorsi hanno lottato per i loro diritti o i difficili rapporti genitori e figli, in deciso contrasto con la leggerezza e leziosità della decorazione dello sfondo che crea con il suo diversificato e decorativo pattern un'ambiguità portatrice di un certo straniamento. Elisa Rossi riprende invece con una pittura figurativa legata all'iperrealismo il significato latino della parola Persona in quanto maschera. Gli indumenti divengono nei suoi quadri in bianco e nero l'immagine esteriore e sociale e non sempre veritiera che viene presentata agi altri, simboli di idee e antichi valori. Nella sua atavica ricerca di una femminilità che non mostra mai il suo volto, colta in ambientazioni intime e riservate, l'autrice sottolinea con evidenza l'aspetto fattivo e artigianale dell'esecuzione, la meditazione del comporre come una moderna Penelope che tesse la sua tela, valorizzando la ripetitività assurta quasi a preghiera del gesto lento, un percorso catartico e di purificazione del sè. La coperta della nonna che protegge e nello stesso tempo nasconde, si accosta al taglio simbolico di un lenzuolo che predomina sulla figura e sembra quasi prendere vita propria, accanto a raffinatissimi disegni a grafite ed olio su carta, dove la persona in quanto tale non è più presente ma lascia indovinare le sue tracce. Anche Barbara Bonfilio utilizza il medium pittorico affidandosi a spunti letterari, in questo caso ad "Antonio e Cleopatra" di Shakespeare, e alla realtà della società contemporanea. Segno peculiare del suo racconto sono le scritte sempre presenti e struttura dell'opera stessa, in parte leggibili, alcune volte vere e proprie parti di testo, altre volte immesse all'interno del quadro in forma iconica a stimolare una riflessione. Il pensiero di fondo si mischia pertanto all'eleganza degli abiti e dei decori resi con un a plat intrigante che non disturba ma colpisce l'occhio di chi guarda, mediante una bellezza estetica estremamente curata nei particolari. Le tinte dei tessuti e gli inserti in rilievo si fondono così ai corpi voluttuosi e tridimensionali e agli sguardi seducenti delle presenze femminili in costume, dando loro voce e marcandone l'identità espressiva al di fuori del messaggio rigoroso del monito scolpito a chiare lettere. Giorgia Beltrami sceglie di giocare con tecniche e materiali sempre diverse per riproporre il suo vissuto quotidiano. Il volto della figlia, unico soggetto dato riproposto più volte - sia tramite un eccellente disegno a matita che con il mezzo fotografico - in modo direttamente frontale e con una serialità che si trasforma in narrazione quasi cinematografica, si mostra come una metafora di brandelli di vita e permette all'artista di cogliere e scandagliare tutte le differenti sfaccettature della personalità e dell'animo umano. La stoffa è il leit motiv ricorrente e una sorta di gioco o divertissement che unisce con le sue vibrazioni parti di un discorso e attimi di tempo passato, come il sapore di casa, l'ambiente dell'infanzia, la scelta di cosa indossare al momento per definire il proprio percorso identitario dagli anni passati a quelli a seguire. Cristina Iotti toglie infine la figura per lasciare soltanto l'abito - descritto con una tecnica periziosa e virtuosistica abbinata alla delicatezza delle matite colorate - emblema di fattore estetico ma anche luogo del ricordo. Non a caso quelli che raffigura sono tutti vestiti che le appartengono legati a momenti trascorsi, che compaiono come luoghi dove l'aspetto mnemonico personale va ad imporsi. L'autrice intende suggerisce una suggestione con la stessa sospensione degli abiti stessi che non vengono mai indossati ma soltanto appesi, e sembrano quasi prendere la forma di chi li ha in un certo senso "abitati" dando loro la parola attraverso i movimenti del corpo. Svuotati di tutto il loro peso e dell'ingombro delle membra, illuminati come improbabili attori teatrali, poiché la figura non è quasi mai volutamente rappresentata, sono come esseri fluttuanti e velatamente malinconici che aleggiando in uno spazio emozionale atemporale e indefinito, fatto di textures e carta da parati, pizzi e volants, impongono un'assenza che rappresenta una pregnante e definitiva presenza.

 

L'Ospitale Veduta

Prima Edizione 2014

 

inaugurazione 20 settembre ore 18

20 settembre - 26 ottobre 2014
Ospitale di Rubiera
via Fontana 2 Rubiera (re)
ORARI: sabato e domenica : 10.00 – 13.00 /  16.00 -19.00 e su richiesta
VISITE GUIDATE: sabato 27 e sabato 11 ore 16.00 è possibile anche su prenotazione.

 

Ufficio Stampa CSart